A cura della Dott.ssa Monica Napoli – Psicologa – Psicoterapeuta Familiare
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E’ di questi giorni la notizia di cronaca di una donna che ha denunciato la scoperta dell’impropria, e non da lei autorizzata, sepoltura del proprio feto a seguito di un aborto terapeutico in un grande cimitero romano, nella forma di una croce con il proprio nome.
La pubblicazione di questa storia, a partire da un post della donna su un social network, ha scatenato una serie di reazioni di sdegno e rabbia non solo delle donne – con la scoperta conseguente di altre storie analoghe – e delle associazioni di donne, ma anche di esponenti della politica regionale e nazionale.
Senza approfondire la normativa relativa alla sepoltura dei prodotti abortivi/feti e dei prodotti del concepimento, facilmente consultabile in rete (art. 7 del DPR 285/1990 qui il link della Gazzetta Ufficiale https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/1990/10/12/090G0312/sg) sembra importante riportare la questione su un piano profondamente intimo ma, contestualmente, profondamente “sociale”.
In altra occasione (https://www.alcentroroma.it/elaborare-lutto-un-aborto-morte-perinatale/) è stato affrontato il tema del contesto emotivo e psicologico legato all’aborto, e, a partire da quanto lì descritto, in questo caso è maggiormente rilevante soffermarsi su quanto alcune pratiche, consolidate quanto improprie, di gestione dell’aborto e delle fasi successive ad esso, abbiano l’effetto di amplificare alcuni stati d’animo della donna che lo ha subìto.
In questo senso, per esempio, la questione della necessità del consenso alle pratiche di sepoltura, assume una rilevanza non solo formale e giuridica, ma anche profondamente intima, perché mette in campo il tema del rispetto della propria autodeterminazione, delle proprie credenze, del proprio stato d’animo, della propria sofferenza.
La gravità della notizia di cronaca infatti, si dirama nel significato che assume scoprire che, contro la propria volontà, è stato “manipolato” un aspetto traumatico della propria esperienza, in modi e contesti che eventualmente possono non essere condivisi dalla donna stessa, che dovrebbe essere invece attrice principale di quanto accade alla sua vita e alla sua storia. Perdita di autodeterminazione, di libertà di scelta, di possibilità di elaborare il lutto nel modo che si sente più consono, colpevolizzazione.
Colpevolizzazione, quando si scopre che il servizio sanitario e il servizio comunale, forse in autonomia, forse no, nelle modalità definite “consuete”, ha sepolto il proprio feto “per beneficenza”, come se fosse stato abbandonato da una madre inadeguata.
Inadeguata perché ha abortito, inadeguata perché non ha scelto di seppellire il suo feto.
Un senso di impotenza, che si accavalla al senso di morte, al dolore, alla rabbia, all’angoscia di “vedersi morta”, con una tomba nominata, quando dalla morte si è stati profondamente e dolorosamente attraversate, alla violenza.
Violenza nel messaggio, veicolato attraverso la propria tomba, che la donna, se non diventa madre, muore.
Violenza subìta quindi prima da un evento traumatico, e poi accentuata dalle modalità in cui avviene, ed operata laddove porta con sé un declino della libertà di scelta, del rispetto del proprio credo religioso, della propria privacy.
E per la società, un declino della laicità delle scelte politiche e delle pratiche sociali e sanitarie, che dovrebbero essere cardine di uno stato di diritto, che invece, in questa storia, alla privazione della privacy giuridicamente definita, lega la privazione di una privacy fatta di emozioni, vissute, storie, e che per questo lede la fiducia nel patto sociale stesso, che è fondato sulla libertà, sulla sicurezza e sulla responsabilità.
E per questo ci coinvolge tutti.