Dott. ssa Monica Napoli Psicologa – Psicoterapeuta
Il 15 ottobre è stata la giornata dei bambini mai nati.
Un tema ancora troppo nascosto, considerato un tabù sociale e spogliato dal peso emotivo fisico familiare e personale che porta con sé.
E’ un lutto, vero e proprio, con caratteristiche peculiari derivanti da alcuni elementi specifici, quali l’assenza di una memoria condivisa, spesso di un corpo da seppellire e da piangere, e con una grande ricaduta sul senso di sé e sul futuro, non solo emotivo, dei genitori.
L’attesa di diventare genitori è un momento molto carico: di aspettative, sul futuro, sul bambino che deve arrivare, sul proprio ruolo di genitore e sulla propria posizione nel tessuto sociale; di cambiamenti, sia nella sfera emotiva e cognitiva, sia in quella quotidiana, sia in quella fisica, in particolare per le mamme; di emozioni, dalla paura alla gioia, dal desiderio alla preoccupazione.
In caso di morte del bambino atteso, in qualunque epoca gestazionale accada, si crea una violenta e profonda spaccatura nella continuità del senso di sé e nella propria sicurezza personale.
Il tempo si ferma, gli schemi mentali e quotidiani si confondono e si interrompono, le aspettative si frantumano ed il senso di autostima diventa fragile.
Il senso di colpa prende il sopravvento, accompagnato dall’impossibilità di comprendere, di spiegare una cosa così innaturale, di riprendere la propria vita di prima. E non se ne può parlare. Il dolore del lutto, la sensazione di spiazzamento, di incredulità, di inadeguatezza, di morte, devono rimanere all’interno del proprio spazio intimo, spesso neanche in quello di coppia.
Il senso di inadeguatezza spinge verso una sensazione di vergogna, e il mancato riconoscimento sociale di questi eventi in quanto veri e propri lutti non permette una completa e positiva elaborazione.
Troppo spesso le parole che vengono offerte ai genitori in lutto, anche dal personale sanitario, sono: “riprovateci subito” “sarà stata selezione naturale” “tranquilli, fino a tre è fisiologico” “dai, voltate pagine che la prossima volta andrà bene” ecc…
Come se quel particolare momento e quel bambino specifico non avessero dignità di esistere, debbano essere cancellati o considerati “fisiologici”.
E se questo è il contesto, come può una madre rappresentare il profondo senso di morte che la pervade, la sensazione di essere una “bara che cammina” (citaz.), quando intorno a sé questo dolore non è riconosciuto e valorizzato.Come può un padre affrontare il proprio senso di fallimento e di torpore se è chiamato ad affrontare la situazione con forza e tranquillità, senza mostrare alcun turbamento.
Come possono i genitori costruire uno spazio di pensiero individuale su questo figlio se questo spazio non è concesso collettivamente e culturalmente, se mancano rituali condivisi, se da questo dolore ci si deve difendere a tutti i costi allontanandolo da sé.
Ma il dolore non si può allontanare.
Il lutto, di qualsiasi lutto si tratti, ha bisogno di essere elaborato, vissuto, riconosciuto e legittimato, anche condiviso, e soprattutto parlato.
Le parole rendono reali le cose, garantiscono dignità e legittimità, e se di una cosa non si può parlare, non esiste… ma, il lutto, non nominato, lavora comunque dentro di noi, risucchia le nostre forze, le energie, l’autostima, la possibilità di progettare un futuro, di costruire aspettative positive, di costruire legami di attaccamento sani con i figli che verranno.